Perché a raccontare le guerre sono solo gli uomini? E che cosa ricorderebbero invece le donne? Ne risulterebbe forse un'altra guerra, del tutto diversa?
Cosi si interrogava, già prima di essere un'autrice pubblicata, Svetlana Aleksievic, arrivata ora al Nobel la letteratura. Con il suo primo libro, molti anni fa, dette voce alle donne-soldato dell'Unione Sovietica, in una sconvolgente testimonianza della Seconda Guerra Mondiale. Libro che - senza spingersi fino a dare la parola al nemico - risultò troppo in contrasto con la retorica dell'allora stato socialista per non essere censurato e proibito per molto e molto tempo.
In Ragazzi di zinco (E/O edizioni) Svetlana si ripete. Punta l'attenzione in una guerra di cui ci ricordiamo assai meno anche se da essa sono discesi molti dei guai di cui ancora oggi soffre il nostro pianeta: il terribile conflitto che iniziò a fine 1979, con l'invasione sovietica dell'Afghanistan, per trascinarsi per un decennio, fino quasi alla caduta del Muro di Berlino.
Molti semi del fondamentalismo di oggi, molti orrori che allora non ebbero video postati in rete, appartengono proprio a quella guerra. Ma in queste pagine non si indulge alle descrizioni delle esecuzioni sommarie o dei corpi mutilati a spregio - anche se non mancano immagini terribili, come quella della bambina con le mani mozzate perché rea di aver accettato una caramella dal nemico.
Quello che conta è che Svetlana ancora una volta dà voce a chi non ha voce: alle reclute che partirono per una guerra a volte senza che nemmeno gli fosse detto, ai giovani idealisti che invece scelsero l'Afghanistan convinti di edificare così un pezzo di socialismo, ma soprattutto alle madri - chiamate semplicemente così: le madri - che da quella terra videro rimandare il corpo del proprio figlio sigillato in una cassa di zinco (di qui il titolo).
Bello, impressionante, straziante. La guerra raccontata come raramente è stato fatto. Con la moltitudine delle voci che si fa voce sola, unica, alta: la voce di un coro greco, potente e carico di dolore.
Cosi si interrogava, già prima di essere un'autrice pubblicata, Svetlana Aleksievic, arrivata ora al Nobel la letteratura. Con il suo primo libro, molti anni fa, dette voce alle donne-soldato dell'Unione Sovietica, in una sconvolgente testimonianza della Seconda Guerra Mondiale. Libro che - senza spingersi fino a dare la parola al nemico - risultò troppo in contrasto con la retorica dell'allora stato socialista per non essere censurato e proibito per molto e molto tempo.
In Ragazzi di zinco (E/O edizioni) Svetlana si ripete. Punta l'attenzione in una guerra di cui ci ricordiamo assai meno anche se da essa sono discesi molti dei guai di cui ancora oggi soffre il nostro pianeta: il terribile conflitto che iniziò a fine 1979, con l'invasione sovietica dell'Afghanistan, per trascinarsi per un decennio, fino quasi alla caduta del Muro di Berlino.
Molti semi del fondamentalismo di oggi, molti orrori che allora non ebbero video postati in rete, appartengono proprio a quella guerra. Ma in queste pagine non si indulge alle descrizioni delle esecuzioni sommarie o dei corpi mutilati a spregio - anche se non mancano immagini terribili, come quella della bambina con le mani mozzate perché rea di aver accettato una caramella dal nemico.
Quello che conta è che Svetlana ancora una volta dà voce a chi non ha voce: alle reclute che partirono per una guerra a volte senza che nemmeno gli fosse detto, ai giovani idealisti che invece scelsero l'Afghanistan convinti di edificare così un pezzo di socialismo, ma soprattutto alle madri - chiamate semplicemente così: le madri - che da quella terra videro rimandare il corpo del proprio figlio sigillato in una cassa di zinco (di qui il titolo).
Bello, impressionante, straziante. La guerra raccontata come raramente è stato fatto. Con la moltitudine delle voci che si fa voce sola, unica, alta: la voce di un coro greco, potente e carico di dolore.
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