lunedì 5 ottobre 2020

Cosa c'entrano le scarpe Bata con la giungla del Brasile?


Me lo ricordo come se fosse ieri il negozio di Bata a due passi dalla stazione e da piazza Santa Maria Novella, la serie di vetrine e l'insegna con le lettere rosso vive. Bata era un marchio conosciuto, quasi di casa. Le sue scarpe stavano nel mio mondo e non c'era altro d'aggiungere, niente che la curiosità potesse fiutare. 

Bata: un nome così semplice, così famigliare, che per me era un'azienda italiana, come la Nutella e il Mulino Bianco. Ci ho messo molto per scoprire che la sua storia comincia in quella che un tempo era la Cecoslovacchia per poi resistere alle guerre e alle dittature del Novecento. Che questa impresa con fabbriche e punti vendita in tutto il mondo discende da una modesta famiglia di calzolai. Che per scampare al nazismo e allo stalinismo a un certo punto l'Europa viene lasciata per la giungla del Brasile, dove anche una birra è nostalgia. E che questa destinazione non è solo fuga, non è solo investimento produttivo, è anche la possibilità di una nuova vita, in città comunità che nascono dal niente. 

Sì, tutto questo l'ho appreso solo l'altro giorno, immerso nelle pagine di Con Bata nella giungla della scrittrice ceca Markèta Pilàtovà, proposta da Miraggi con l'ottima traduzione di Alessandro de Vito (mi piace, per inciso, che il nome del traduttore figuri in copertina).

E' una gran bella storia da leggere, questa, densa di personaggi affascinanti, umori vari, sviluppi imprevedibili tra due continenti e geografie più complicate del cuore e degli affetti. Un'avventura sempre riscaldata da una visione forte, quasi utopica, da impresa che non si limita a guardare solo i conti - più volte inseguendo Bata mi è affiorato il nome di Adriano Olivetti. Senza trascurare altri temi, importanti: il distacco dalla propria terra, la possibilità di far convidere dentro di noi anche un'altra patria, l'appartenenza che ci assegna la lingua, la fedeltà a noi stessi e alle nostre radici.

Eppure non si tratta solo della storia, ma del modo con cui è raccontata. Markèta restituisce vita, trasmette la verità che non è solo quella dei fatti accaduti. Costruisce un mosaico di sguardi e punti di vista e fa in modo che la sua voce diventi la voce di chi non c'è più. Adopera la prima persona persino per la fabbrica dismessa.

Questo libro adempie a ciò che a un certo punto afferma Dolores, una delle protagoniste. Noi siamo qui, possiamo essere qui, finché qualcuno pensa a noi. E questo succede ed è dono raro, bellezza che per una volta ci teniamo stretti.







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