lunedì 9 dicembre 2013

Marco Vichi e le poesie di una vecchia signora

Quelle che seguono non sono mie parole, ma parole di Marco Vichi. Mi ha detto lui che posso utilizzarle come voglio, perché ciò che conta è che questa storia arrivi il più lontano possibile. Parole di una storia, storia tutta di parole. Parole importanti. Prima di tutte le parole di una vecchia signora e di un libro che consiglio a tutti di comprare. 

Vi racconto una storia: una signora di ottantaquattro anni, che già da molto tempo mi domandava senza troppa insistenza se volessi dare un’occhiata alla sue poesie, un giorno mi chiese con più convinzione di leggerne almeno una, così, solo per farle un favore, e se poi non mi fosse piaciuta non mi avrebbe mai più scocciato. 

Eravamo a pranzo in un bel ristorante, al mare, in estate. Lessi la prima poesia, e rimasi di sasso: era bellissima, semplice e profonda, e il ritmo delle parole dava forza ai significati e alle emozioni. Insomma una vera poesia. Lessi le altre. Avevano la stessa forza e la stessa delicatezza, erano sincere, senza virtuosismi. 


Era il tipo di poesia che avrei sempre voluto scrivere, anzi che avevo provato a scrivere, con risultati pessimi. E adesso scoprivo che mia mamma non era solo mia mamma, ma era una poetessa sconosciuta, e che dal dopoguerra in poi aveva scritto sì e no una poesia all’anno, su foglietti e quaderni, senza nessuna pretesa, tenendo le sue parole in un cassetto... 

Finché sulla via del tramonto aveva sentito il desiderio di farmi leggere i suoi versi, affrontando il rischio con la preoccupazione che il “figlio scrittore” sorridesse di tale puerilità, e che magari con imbarazzo facesse un gran giro di parole per non dirle la verità. Anche io ero pronto a questa eventualità, e certamente mi avrebbe fatto male ferirla, dirle che in realtà i suoi scritti non erano poesia (quante ne leggo che altro non sono se non raccontini con molti capoversi). 

Non sarei mai stato capace di fingere, di lusingarla solo per farla contenta. Non riesco a mentire, nel campo della scrittura. Nemmeno a mia mamma. E invece scoprii che mi sbagliavo, che mi ero sempre sbagliato. Quel giorno decisi di copiare tutte le sue poesie e di mandarle a un editore, senza dire che erano di mia mamma. 

Così feci, e la risposta dell’editore arrivò in pochi giorni: aveva apprezzato molto le poesie, e le avrebbe senz’altro pubblicate. Lo dissi a mia mamma, e lei sorrise: “A me bastava che piacessero a te...” Quando le spiegai che non le stavo “regalando” il libro pagando una tipografia per stamparlo, ma che era un vero editore a pubblicarlo, lei mi disse: “Non vorrai mica dirmi che sono piaciute anche a lui...” Aggiunsi che avrebbe addirittura ricevuto dei diritti d’autore, e lei mi guardò di traverso: “Non voglio soldi, darò tutto in beneficenza”. 

All’inizio non volevo che si sapesse che Paola Cannas era mia mamma, per lasciare che il suo libro camminasse con le proprie gambe. Ma poi, dopo questa sua decisione, ho pensato che per dare più forza alla sua volontà potevo invece incuriosire i lettori dicendo appunto che lei è mia mamma. È uscito anche un bellissimo articolo di Gabriele Ametrano sul Corriere Fiorentino, che aveva intervistato mia mamma al telefono alla fine di febbraio, mentre lei era in un centro di riabilitazione. 

Adesso che mia mamma non c’è più (se n’è andata il 17 marzo) mi sento in missione per promuovere il libro. Ho scelto un’associazione di amici, di cui mi fido completamente, che opera in Bangladesh, e così le poesie di Paola Cannas verranno trasformate in “bambini che sanno leggere e scrivere”. 

L’associazione si chiama Filo di Juta, www.filodijuta.it, e se volete potete destinare a loro anche il 5 per mille: per esprimere la tua scelta a favore di Filodijuta basta mettere una firma nell’apposito riquadro della dichiarazione dei redditi “Sostegno delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale” e indicare nello spazio sottostante il codice fiscale di Filodijuta: 92131060342.
                        
                                                                                                              Marco Vichi

Nessun commento:

Posta un commento

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...