giovedì 4 novembre 2010

Quando la rapidità non fa male

Forse avete letto anche voi la storia di quel concorso letterario aperto a ogni genere di romanzo, basta che i concorrenti rispettino un solo requisito, averlo scritto in appena 30 giorni. Nel caso, vi riporto quanto ha scritto Raffaella De Santis sulle pagine di Repubblica:

Se Jack Kerouac ha scritto On the road in solo tre settimane, perché non tentare. Centinaia di migliaia di aspiranti scrittori sparsi in tutto il mondo in questi giorni ci sperano e intasano con i loro manoscritti il sito web del National Novel Writing Month

Non so se questo concorso mi piace. Certo, a giudicare dal suo successo, pare essere decisamente in sintonia con i nostri tempi. Tempi dove evidentemente la rapidità - e non la lentezza - pare dote essenziale e imprescindibile. In cui la scrittura è quella veloce, quasi automatica, delle email e non quella di chi distilla le parole su uno schermo bianco o peggio ancora su un foglio di carta. Tempi in cui, peraltro, i libri entrano nelle librerie e ne escono con lo stesso ritmo dei turisti in un villaggio vacanze.

E dunque, pensandoci un po' di più questa idea mi piace ancora meno. Però se insisto a pensarci l'occhio mi casca anche sul titolo dell'articolo: Quei grandi romanzi scritti in pochi giorni.

E allora è giusto ricordarsi di Jack Kerouac e dei tanti altri che volarono sulle pagine. Stendhal che completa La Certosa di Parma in appena 52 giorni tenendo fuori di casa tutti gli scocciatori ("Il signore è a caccia" dice la servitù). Fedor Dostoevskij che impiega solo 26 giorni per Il giocatore. Graham Greene, William Faulkner, Luigi Pirandello che in una manciata di settimane sfornano capolavori.

E allora preferisco sospendere il giudizio. Perché mi sa che non conta quanto si è veloci, ma quanto si ha da dire. Quanto ci si sente a proprio agio in quello che si dice. E sarà banale, ma è proprio così.

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