martedì 3 settembre 2013

Le fotografie del "pericolo pubblico numero uno"

In più qualche vecchia foto, anch'essa con i segni del tempo: i contorni che hanno perso il nitore, il bianco e nero ingrigito, le screpolature che solcano i volti e le fisionomie, inevitabili malgrado tutta la cura con cui sono state custodite. Allo stesso modo delle foto conservate negli album dei vostri nonni. Quelle che ogni tanto saltano fuori dai bauli in soffitta o dalle pagine di un libro dove sono rimaste per mezzo secolo. E che capita di trovare anche ai mercatini delle pulci, nelle scatole da scarpe dove una volta si raccoglievano le cartoline postali.

Mi intriga il mistero delle vite fermate in un'inquadratura. Soprattutto ai tempi in cui la fotografia era una posa, un'occasione speciale, una cerimonia da abito buono. Mica come oggi, con gli scatti a ripetizione degli apparecchi digitali o dei cellulari, che è un po' la pesca a strascico delle immagini.
 

Ora punta il dito, Bruna. Quindi me la porge, indice e pollice a stringere con delicatezza l'angolo: è questa la fotografia che vuole mostrarmi. Quasi facesse le presentazioni. E in un certo senso è così: lo vedo per la prima volta.
 

È lui, il babbo di Bruna: Ubaldo Cecchi.
 

Il delinquente di cui nel frattempo ho appreso qualcos'altro.
 

Ubaldo Cecchi: il grande ricercato, nella Firenze del dopoguerra. Colui che poliziotti e cronisti ebbero gioco facile a indicare come il pericolo pubblico numero uno.
 

Proprio così si diceva allora. Allo stesso modo che nel Far West di Tex Willer. 
Il pericolo pubblico numero uno.
 

Ubaldo Cecchi, il delinquente.
 

Distinto com'è, con quel sorriso da maschio latino, quell'espressione di chi la sa lunga, non si direbbe.

(da Paolo Ciampi, Il babbo era un ladro, Romano editore)

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