domenica 13 dicembre 2009

Tito e le sue storie dalla fine del mondo


Da qualche settimana Tito Barbini è ripartito per la Patagonia, inseguendo le tracce di vite che certamente daranno sostanza a un suo nuovo libro. E' lontano, ma la posta elettronica è un gran bel modo per rimanere in contatto e, in questo caso, anche per ricevere ogni settimana le sue lettere. Qui sotto vi riporto una delle sue storie, pubblicata ieri anche dal Corriere di Arezzo


Storie dalla fine del mondo

Ci sono altre storie che devono essere narrate. Prima di tutto quelle delle donne e degli uomini che hanno abitato, per primi, quel mondo alla fine del mondo. E poi di altri, poeti, navigatori e santi, che hanno vissuto in quegli anni il più straordinario dei “passaggi a sud”, quello nella terra australe. Vanno raccontate, perché ci servono, servono comunque, anche se sono storie che davvero arrivano da lontano.
A volte rifletto su tutte le storie di questo mondo alla fine del mondo e poi provo a incrociarle con le storie di Arezzo, le confronto con le mie radici, con i volti delle persone, con le vicende della mia città e della politica. E non so come dire, ma da questo confronto mi sento arricchito, più forte, più attento, più consapevole. Sicuramente non fa male, come non fa male seguire a distanza le storie di Arezzo. Per certi versi è un modo per ridefinire la scala delle priorità, per capire ciò che è davvero importante.
E allora vi racconto della sparizione degli indios e soprattutto di Enriqueta Gastelumendi. Nome quasi impossibile per una piccola storia che mi va di condividere con tutti voi.
E’ morta a 91 anni, nell’agosto del 2004, l’ultima rappresentante degli indios Ona. Era nata il 15 luglio del 1913, era la più piccola di cinque figli di Ramon Guastalumendi, morto nel 1918, e di una Selk’nam, una Ona battezzata come Maria Felisa che morì nel 1949, senza aver imparato “nient’altro che quattro o cinque parole di spagnolo”. Oggi non sembra quasi possibile.
Era nata nella fattoria di un missionario bianco, un tale che si chiamava Thomas Bridge, uno dei primi europei a stabilirsi nella terra degli Ona. Forse a metterla al mondo era stato un fuggente attimo d’amore, dopo che la madre era stata rapita da uno spagnolo cacciatore di foche. Per questo lei era considerata impura dalla sua gente. Non aveva sangue intero, Enriqueta, ma non si considerò mai di razza meticcia. Volle essere e rimanere, dall’inizio alla fine, una donna della tribù degli Onas. L’ultima.
Io in tutto questo ci trova una coerenza e anche una schiettezza che sono valori da tenere sempre bene stretti.
Enriqueta portava con se il dolore infinito di uno degli eccidi più terribili, e meno conosciuti, tra i tanti consumati ai danni degli indios del Sudamerica. Un genocidio come quello che abbiamo conosciuto in altre vicende della storia recente, uno sterminio totale fatto da coloni e colonizzatori che venivano dall’Europa, soprattutto inglesi e olandesi.
Le isole dell’arcipelago fuegino erano abitate da non meno di seimila anni dagli Akaluf e dagli Yamanas: popoli che si scoprirono impotenti e terrorizzati all’arrivo dei primi coloni verso il 1880. Pensare che già avevano conosciuto l’uomo bianco, e la sua ferocia. Da tempo, infatti, i navigatori europei che passavano sulle navi lo stretto di Magellano si divertivano a ucciderli, cosi per esercitarsi al tiro.
Non andò certo meglio agli Onas che popolavano un poco più a Nord le radure dell’Isla Grande. A metà dell’800 arrivarono i cercatori d’oro dall’Italia, dalla Croazia, dalla Spagna e dalla Francia e gli allevatori di pecore dall’Inghilterra. Quando gli indios videro le pecore fu come andare a nozze. Erano più facili, molto più facili da prendere dei guanachi e la carne era più buona e la lana più calda.
Non l’avessero mai fatto, i coloni inglesi decisero di sterminarli. Misero una taglia di una sterlina per ogni paio di orecchie, testicoli o seni che provassero la morte di un aborigeno. E i cercatori d’oro non si fecero pregare due volte per partecipare alla caccia e battere cassa per le ricompense. Insomma ogni mezzo era lecito: lasciarono una balena adulterata in una spiaggia e 500 Onas morirono per averne mangiato le carni, altri 300 furono avvelenati a tradimento in un convivio che avrebbe dovuto sancire la pace. E chi non lasciò il mondo per una sterlina fu colpito dalle malattie oppure venne deportato in Europa ed esibito nei circhi equestri.
Si racconta di un certo Maurice Matre che si arricchì grazie a un gruppo di bambini Onas Faceva pagare il biglietto all’Esposizione di Parigi del 1889, per vedere i bambini in gabbia, costringendoli a mangiare carne cruda e presentandoli come cannibali.
Tra i cacciatori di teste si è distinto un inglese soprannominato Mister Bond, che portato in fondo il genocidio degli indios in Terra Del Fuoco, si spostò in Patagonia. Lì continuò a lavorare per l’industria laniera e nel 1921 partecipò ai massacri degli operai e dei sindacalisti durante il grande sciopero di quegli anni. In un solo giorno partecipò alla fucilazione di 17 lavoratori.
Tornando ai nostri Onas: nel 1905 erano rimasti meno di 500, nel 1945 erano 25. L’ultima discendente diretta, da parte di madre, è la nostra Enriquetta. E’ sepolta nel piccolo cimitero di Ushuaia.
Quando mi sono incamminato nel vialetto che porta alla sua tomba ho pensato che quelle lastre di granito fossero come dei libri di pietra. Archivi di umanità dove le pagine sanno di vita e non di morte. Sbuco dal vialetto e mi ritrovo davanti a una lastra con la foto di una donna dal sorriso ironico. Enriqueta, appunto.
Nessuno si prese la briga di insegnargli a leggere e a scrivere. A quindici anni sposò un uomo che non conosceva e per il resto della sua vita ha tirato avanti lavorando come un animale. “Ho imparato da sola”, raccontò prima di morire a un giornale argentino parlando delle sue sculture.
Già, perché Enriqueta ha dedicato quasi tutta la sua vita a disegnare e a scolpire. E’ bello ricordarsela così, anche questo serve, non fosse altro che perché aiuta la consapevolezza di quanti talenti e di quanta arte abbiamo intorno a noi, a prescindere dai riconoscimenti, dai titoli accademici, a prescindere dai nostri pregiudizi.
Enriqueta intarsiava la “lenga”, il legno della Terra del Fuoco riproducendo volti e animali che, come per magia, rievocavano un’epopea di diecimila anni. Già perché tanti furono gli anni vissero indisturbati gli Onas. Credo che anche questo faccia bene sapere, quante possono essere profonde le radici della storia degli uomini. E quanto basti poco per distruggerle, quelle radici.

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