sabato 25 marzo 2023

La Terapia del bar: Fausto Meoli racconta il suo circolino


Lo sai dove comincia la grazia o il tedio a morte del vivere in provincia. 

Sì, ecco, la mia storia potrebbe iniziare con questa strofa di Canzone quasi d’amore di Francesco Guccini. Anzi inizia tutto nei primi anni ‘70 del secolo scorso nel bar della Casa del popolo, si quella dell’allora comunisti, di un piccolo paese dell’empolese, provincia del Granducato di Firenze, città a cui si ambiva per meglio indottrinarsi. Nell’entropia attuale della mia mente, per proseguirla con la stessa canzone di Guccini alla ricerca dei visi che ti hanno dimenticato.

Le partite di calcio della nazionale, allora si vedevano solo quelle in diretta in bianco e nero fino al 1977, vero evento di goliardo/terapia di massa. Il Bicco, altro soprannome di un signore, a cui i tedeschi avevano rubato la bicicletta in tempo di guerra, furoreggiante durante Italia-Germania contro gli avversari, a cui di solito veniva indicato un tecnico della panchina tedesca e detto …è quello che ti ha rubato la bicicletta. 

Il nocio, lui si chiamava Giuseppe, per scommessa si lavò con la saponetta, d’estate, nel piazzale dei tavoli esterni prospicente la strada, sotto lo scroscio d’acqua di una gomma da giardino, rimanendo solo in mutande. Vinse la scommessa. A mezzanotte, Giovanni il barista, concludeva il turno gettando con slancio sedie e tavoli in plastica dall’esterno all’interno, attraverso le finestre e ci ricordava che il bar rimane aperto ma il servizio al bancone è self-service. Ero studente a Firenze. Vivevo questa dualità dei territori. 

Ma è grazie a quel bar della Casa del Popolo che mi è rimasta quell’ironia e quella voglia da provinciale che mi ha fatto incontrare e confrontarsi con altre persone in altri ambiti. La nostalgia di quei ricordi è lieve, struggente. Un amarcord non rinnegabile.
Riaffiorano quei personaggi. Il soprannome e non il nome ci distingueva. Noi andavamo lì e non al Circolino MCL dei democristiani. Loro erano sempre la lista N.11 sulla scheda elettorale. Mentre il PCI con il n.1. Il Governo, epiteto con cui veniva chiamato un tale di cognome Mancini che era la bandiera rossa intransigente fra i frequentatori di quel bar, diceva sempre agli scrutatori che sarebbero stati al seggio, quando la scheda è contrassegnata con il n.11, scrivete due volte il n.1. Ovviamente non lo fecero mai. 

Il capannello intorno al juke box ci faceva sognare, quello che per me e tanti altri, sarebbe stato l’invito al viaggio. Non solo Guccini o Claudio Lolli. You’re so vain di Carly Simon, Wild world di Cat Stevens prima che diventasse musulmano, Aqualung dei Jethro Tull, noi giovani di allora con i capelli lunghi, il bicchiere di “birrino” Peroni, le sigarette Nazionali o se andava meglio le Muratti, un po’ invisi agli altri paesani che preferivano il giuoco della carte. 

Fausto Meoli


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