Lo
sai dove comincia la grazia o il tedio a morte del vivere in
provincia.
Sì,
ecco, la mia storia potrebbe iniziare con questa strofa di Canzone
quasi d’amore
di Francesco Guccini. Anzi inizia tutto nei primi anni ‘70 del
secolo scorso nel bar
della Casa del popolo, si quella dell’allora comunisti, di un
piccolo paese dell’empolese, provincia del Granducato di Firenze,
città a cui si ambiva per meglio indottrinarsi. Nell’entropia
attuale della mia mente, per proseguirla con la stessa canzone di
Guccini alla
ricerca dei visi che ti hanno dimenticato.
Le partite di calcio della nazionale, allora si vedevano solo
quelle in diretta in bianco e nero fino al 1977, vero evento di
goliardo/terapia di massa. Il Bicco,
altro soprannome di un signore, a cui i tedeschi avevano rubato la
bicicletta in tempo di guerra, furoreggiante durante Italia-Germania
contro gli avversari, a cui di solito veniva indicato un tecnico
della panchina tedesca e detto …è
quello che ti ha rubato la bicicletta.
Il nocio,
lui si chiamava Giuseppe, per scommessa si lavò con la saponetta,
d’estate, nel piazzale dei tavoli esterni prospicente la strada,
sotto lo scroscio d’acqua di una gomma da giardino, rimanendo solo
in mutande. Vinse la scommessa. A mezzanotte, Giovanni il barista,
concludeva il turno gettando con slancio sedie e tavoli in plastica
dall’esterno all’interno, attraverso le finestre e ci ricordava
che
il bar rimane aperto ma il servizio al bancone è self-service.
Ero studente a Firenze. Vivevo questa dualità dei territori.
Ma è
grazie a quel bar
della
Casa del Popolo che mi è rimasta quell’ironia e quella voglia da
provinciale che mi ha fatto incontrare e confrontarsi con altre
persone in altri ambiti. La nostalgia di quei ricordi è lieve,
struggente. Un amarcord non rinnegabile.
Riaffiorano
quei personaggi. Il soprannome e non il nome ci distingueva. Noi
andavamo lì e non al Circolino MCL dei democristiani. Loro erano
sempre la lista N.11 sulla scheda elettorale. Mentre il PCI con il
n.1. Il Governo,
epiteto con cui veniva chiamato un tale di cognome Mancini che era la
bandiera rossa intransigente fra i frequentatori di quel bar,
diceva
sempre agli scrutatori che sarebbero stati al seggio, quando
la scheda è contrassegnata con il n.11, scrivete due volte il n.1.
Ovviamente
non lo fecero mai.
Il capannello intorno al juke box ci faceva
sognare, quello che per me e tanti altri, sarebbe stato l’invito al
viaggio. Non solo Guccini o Claudio Lolli. You’re
so vain di
Carly Simon, Wild
world
di Cat Stevens prima che diventasse musulmano, Aqualung
dei
Jethro
Tull,
noi giovani di allora con i capelli lunghi, il bicchiere di “birrino”
Peroni, le sigarette Nazionali
o se andava meglio le Muratti,
un po’ invisi agli altri paesani che preferivano il giuoco della
carte.
Fausto Meoli
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