mercoledì 24 giugno 2020

Srebenica e la fatica di uccidere 8 mila uomini

Si svegliò in un bagno di sudore, più stanco di quando si era coricato. Si lavò il viso e il corpo si fece la barba. Si preparò a partire. 
Il suo lavoro era terminato. 

Questa è la verità, c'è gente per cui lavoro può essere anche questo: organizzare un'esecuzione di massa. Con tutto ciò che essa comporta, in termini di incombenze, procedure, problemi di organizzazione e possibili contrattempi. Perché non è uccidere, piuttosto è come uccidere in modo svelto e ordinato.

Così è, così è stato: non ci sarebbero stato i crimini di massa del Novecento, senza gente che se n'è occupata con scrupolo ed efficienza. E questo, in genere, richiedono gli stermini della nostra epoca: una macchina precisa ed efficiente, capace di rispondere al fabbisogno con la regolarità di una catena di montaggio. Questo, non gli scannamenti dei barbari.

Ecco, tra i libri che meglio ci raccontano lo sterminio, adoperando il punto di vista degli sterminatori, va senz'altro messo questo: Metodo Srebrenica di Ivan Dikić (Bottega Errante), con cui si prova a ricostruire il massacro di oltre 8 mila uomini sul finire della guerra in Bosnia, nel luglio 1995. 

Si prova, perchè non c'è parola che possa restituire a pieno l'orrore di ciò che è successo. E solo i sommersi, non i salvati, per riprendere Primo Levi, potrebbero farcela con la loro testimonianza, se solo fossero ancora con noi.

Sapevo di dover tentare di capire, benché si trattasse di cose incomprensibili - spiega l'autore -  di dover cercare di penetrare nel cuore del misfatto, fino alle motivazioni di coloro che avevano ordinato ed eseguito le uccisioni: questo era il presupposto per poter scrivere qualcosa di minimante credibile e autentico. 

Solo che per questo non basta la letteratura, forse non è nemmeno necessaria: i fatti, inseguiti, documentati, riportati possono essere sufficienti. 

Ivan Dikić dipana il filo di quei tremendi giorni di luglio raccontando di chi sapeva e non ha detto nulla, di chi sapeva e ha voltato la testa dall'altra parte, soprattutto di chi sapeva e ha fatto in modo che tutto venisse portato a compimento.

Il colonnello Beara, soprattutto, a cui con scelta felice, per i mandanti del genocidio, venne affidata l'operazione. Trovarono un uomo affidabile, a fronte di un'impresa che avrebbe messo in difficoltà anche le squadre speciali naziste. 

Ammassare e suddividere i prigionieri, tenerli buoni, trasferirli nei luoghi delle esecuzioni, scavare le fosse comuni, far sparire i corpi per quanto possibile. A tutto Beara, insieme ai suoi uomini, seppe far fronte: questo gli era stato chiesto, questo fece. Con qualche malumore riservato solo al sovraccarico di impegno e responsabilità: come un quando il principale ti rovescia addosso troppe pratiche da evadere. Se la cavò con qualche scatto di nervi e una bottiglia di whiskie.

Non è un romanzo, ma si può leggere come un romanzo, Metodo Srebrenica, perché allo stesso modo dei grandi scrittori russi getta luce su ciò che gli uomini hanno dentro.

E c'è buio dentro e questo buio infligge un senso di vertigine. Avresti voglia di tirarti indietro, forse perchè sospetti il peggio, che dentro non ci sia niente. Invece ti tieni stretta questa vertigine e speri che questa storia di male terribile e insieme banale sia letta da molti, sia letta anche nelle scuole, perché così è, così è stato.


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