Mi perdo. Mi smarrisco a Katowice, eppure questa è la città dove sono nato e in cui ho trascorso la mia infanzia...
Ecco, sono questi i primi passi. E forse bisogna davvero smarrirsi per riannodare i fili. Bisogna davvero divagare con la testa e con i piedi per scoprire e riscoprire. Per rimanere in qualche modo fedeli al proprio passato e allo stesso tempo per guardare meglio avanti, grazie a quel passato. Soprattutto se è un passato doloroso e ingombrante quale può essere quello di una famiglia ebrea nella Polonia del Novecento.
Dopo aver tante volte apprezzato Wlodek Goldkorn sulle pagine dell'Espresso, ora incontro la sua storia in Il bambino nella neve (Feltrinelli), libro importante, profondo, coinvolgente. Libro di viaggio e più precisamente di ritorno, nella sua Polonia. Libro per ricordare ciò che è stato, libro sui destini di una famiglia, ma anche di un paese intero e di un popolo che di quel paese è stato parte importante.
E c'è la Polonia di prima della Shoah, con un mondo ebraico che non era solo quello dei villaggi, reso così diverso dalla nostalgia e dal rimpianto, ora che non c'è più. C'è la Polonia dell'occupazione nazista, di Auschwitz che è il cimitero di famiglia - Una preghiera? Non c'è niente di sacro ad Auschwitz - e dei campi di sterminio quali Treblinka e Majdanek di cui si parla molto meno perché sopravvissuti non ce ne sono stati. C'è la Polonia della rivolta del ghetto e di Marek Edelman, che per Wlodek è stato complicato maestro di vita. Ma c'è anche la Polonia che c'è stata dopo, quella sotto il socialismo, costruita sulle macerie della guerra contro i nazisti, eppure investita da spaventose ondate di antisemitismo: fino al pogrom e poi alla cacciata di tanti ebrei - Avevo quindici anni e diventai uno straniero in patria, un nemico interno, una quinta colonna. Straniero due volte, in un paese dove un mondo era già scomparso.
Da Katowice a Firenze, è stato lungo il viaggio di Wlodek: ancora più lungo, se non si misura con i chilometri, ma con le lacerazioni dell'anima, i disorientamenti della cultura, il lavorio delle emozioni.
Ma in questo viaggio - e questo è un grande libro di viaggio, nello spazio e nel tempo, non un diario o un memoir - c'è modo per crescere, per capire, per allargare lo sguardo, perfino per trovare le parole giuste. Per far sì che la memoria serva davvero al nostro presente.
Si dice che una volta si portavano nelle miniere i canarini, uccelli sensibili ai gas. I canarini avvertivano i minatori quando la catastrofe era imminente. Ecco, per me la memoria significa essere un canarino nella miniera, dare l'allarme quando sento l'acre odore del razzismo.
Non per vendetta, non per vivere con le spalle voltate indietro. Ma per il nostro sentirsi uomini oggi.
Ecco, sono questi i primi passi. E forse bisogna davvero smarrirsi per riannodare i fili. Bisogna davvero divagare con la testa e con i piedi per scoprire e riscoprire. Per rimanere in qualche modo fedeli al proprio passato e allo stesso tempo per guardare meglio avanti, grazie a quel passato. Soprattutto se è un passato doloroso e ingombrante quale può essere quello di una famiglia ebrea nella Polonia del Novecento.
Dopo aver tante volte apprezzato Wlodek Goldkorn sulle pagine dell'Espresso, ora incontro la sua storia in Il bambino nella neve (Feltrinelli), libro importante, profondo, coinvolgente. Libro di viaggio e più precisamente di ritorno, nella sua Polonia. Libro per ricordare ciò che è stato, libro sui destini di una famiglia, ma anche di un paese intero e di un popolo che di quel paese è stato parte importante.
E c'è la Polonia di prima della Shoah, con un mondo ebraico che non era solo quello dei villaggi, reso così diverso dalla nostalgia e dal rimpianto, ora che non c'è più. C'è la Polonia dell'occupazione nazista, di Auschwitz che è il cimitero di famiglia - Una preghiera? Non c'è niente di sacro ad Auschwitz - e dei campi di sterminio quali Treblinka e Majdanek di cui si parla molto meno perché sopravvissuti non ce ne sono stati. C'è la Polonia della rivolta del ghetto e di Marek Edelman, che per Wlodek è stato complicato maestro di vita. Ma c'è anche la Polonia che c'è stata dopo, quella sotto il socialismo, costruita sulle macerie della guerra contro i nazisti, eppure investita da spaventose ondate di antisemitismo: fino al pogrom e poi alla cacciata di tanti ebrei - Avevo quindici anni e diventai uno straniero in patria, un nemico interno, una quinta colonna. Straniero due volte, in un paese dove un mondo era già scomparso.
Da Katowice a Firenze, è stato lungo il viaggio di Wlodek: ancora più lungo, se non si misura con i chilometri, ma con le lacerazioni dell'anima, i disorientamenti della cultura, il lavorio delle emozioni.
Ma in questo viaggio - e questo è un grande libro di viaggio, nello spazio e nel tempo, non un diario o un memoir - c'è modo per crescere, per capire, per allargare lo sguardo, perfino per trovare le parole giuste. Per far sì che la memoria serva davvero al nostro presente.
Si dice che una volta si portavano nelle miniere i canarini, uccelli sensibili ai gas. I canarini avvertivano i minatori quando la catastrofe era imminente. Ecco, per me la memoria significa essere un canarino nella miniera, dare l'allarme quando sento l'acre odore del razzismo.
Non per vendetta, non per vivere con le spalle voltate indietro. Ma per il nostro sentirsi uomini oggi.
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