giovedì 31 maggio 2012

Se la paura ci racconta il coraggio in trincea


Finché la minaccia è imprecisata, nello scoppio d'una granata che non si vede arrivare, in una raffica di mitragliatrice o in una scarica di fucileria inaspettata, che possono e non possono colpire, il coraggio riesce ancora facile; ma se la morte è acquattata, vigile, pronta a balzare e a ghermire, se bisogna andarle incontro fissandola negli occhi, senza difesa, allora i capelli si drizzano, la gola si strozza, gli occhi si velano, le gambe si piegano, le vene si vuotano, tutte le fibre tremano, tutta la vita sfugge; allora il coraggio è lo sforzo sovrumano di vincere la paura; allora la volontà deve irrigidirsi, deve tenersi come una corda, come la corda del beccaio che trascina la vittima al macello.

E' questa la paura che racconta Federico De Roberto, in quello che è considerato uno dei più grandi racconti di tutto il Novecento e uno dei punti più alti della letteratura sulla Grande Guerra. La paura, appunto, recentemente ripubblicato da E/O.

Una storia tra le tante del mattatoio. Le trincee del fronte italo-austriaco, i primi colpi che spezzano una lungo periodo di inerzia, quasi una tacita tregua tra i due eserciti contrapposti. Un cecchino nemico, di cui non si saprà mai niente, fulmina uno dietro l'altro i soldati che tentano di raggiungere un posto di vedetta rimasto sguarnito. I comandi si succedono: bisognerà mandare avanti un uomo dopo l'altro, poco importa se lo si spedisce a morte certa: Ce ne mandi tanti finché i caduti formino parapetto! urlano dal comando all'ufficiale sul posto. E tant'è, almeno fino a che un gesto estremo chiederà di rendere conto di questa follia.

Potrei scommetterci: non tirete il fiato, fino in fondo. E' raro trovare pagine così tese, dure, vere, capaci di scavare nella paura come in quel coraggio che non è, non può essere assenza di paura.

E così De Roberto porta nel cuore ferito del Novecento la grande tradizione del verismo italiano, con il suo popolo di vinti senza riscatto. Un filo unisce i Malavoglia a questi soldati, mostrati anche attraverso le tante lingue di un'Italia che in trincea si ritrovava insieme per la prima volta.

E quei corpi abbattuti, colti nell'ultima agonia, sono forse il grido più alto di una letteratura che invoca la pace, senza nemmeno sapersi pacifista.


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