È un peccato che a scuola non si studino mai i poeti dell’antico Giappone, un immenso tesoro che non si finisce di esplorare.
Prendete per esempio un poeta come Issa, l’ultimo grande compositore di haiku, cioé della poesia giapponese che con tre versi e una manciata di parole, solitamente non più di 17 sillabe, riesce a catturare un’emozione, una verità, perfino una visione del mondo.
Issa era di quei poeti monaci che vagabondavano per tutto il Giappone, calpestando la polvere con i suoi sandali di bambù. Pare che ci abbia lasciato qualcosa come 20 mila poesie. Poesie semplici, quasi istintive, poesie intrise di parole quotidiane e capaci di arrivare dritte al cuore, poesie per avvicinarsi a tutto quanto è piccolo e di poca importanza per i più e che per lui, invece, valeva come l’universo intero.
Issa vedeva la bellezza ovunque, nelle cose di ogni giorno, nei gesti comuni, in tutto quanto non è appariscente, negli animali meno vistosi, come le lumache, i grilli, perfino le zanzare…
Si può pensare che sia facile cantare la bellezza quando le cose vanno bene, quando la vita scorre senza troppi intoppi. Ma non è stata questa la vita di Issa.
Issa, in effetti, ha conosciuto il dolore più intenso che un uomo possa conoscere, un inimmaginabile abisso di dolore provocato dalla morte di tutti e tre i suoi figli, uno dopo l’altro.
Ed ecco, la sua poesia più bella nasce proprio al cospetto della figlioletta appena morta. Ruota tutto intorno a una parola semplice, semplice: “eppure”. La vita è dolore, la vita è impermanenza, la vita è un soffio: “eppure” merita di essere vissuta, “eppure” ha una sua irresistibile bellezza.
La poesia è questa, semplicemente:
Diciassette sillabe da scolpire nel cuore. Perché regalano la bellezza che fiorisce anche dal dolore più tremendo. La parola, anche la singola parola, che ci dà la forza per redimerci e tirare avanti.
Prendete per esempio un poeta come Issa, l’ultimo grande compositore di haiku, cioé della poesia giapponese che con tre versi e una manciata di parole, solitamente non più di 17 sillabe, riesce a catturare un’emozione, una verità, perfino una visione del mondo.
Issa era di quei poeti monaci che vagabondavano per tutto il Giappone, calpestando la polvere con i suoi sandali di bambù. Pare che ci abbia lasciato qualcosa come 20 mila poesie. Poesie semplici, quasi istintive, poesie intrise di parole quotidiane e capaci di arrivare dritte al cuore, poesie per avvicinarsi a tutto quanto è piccolo e di poca importanza per i più e che per lui, invece, valeva come l’universo intero.
Issa vedeva la bellezza ovunque, nelle cose di ogni giorno, nei gesti comuni, in tutto quanto non è appariscente, negli animali meno vistosi, come le lumache, i grilli, perfino le zanzare…
Si può pensare che sia facile cantare la bellezza quando le cose vanno bene, quando la vita scorre senza troppi intoppi. Ma non è stata questa la vita di Issa.
Issa, in effetti, ha conosciuto il dolore più intenso che un uomo possa conoscere, un inimmaginabile abisso di dolore provocato dalla morte di tutti e tre i suoi figli, uno dopo l’altro.
Ed ecco, la sua poesia più bella nasce proprio al cospetto della figlioletta appena morta. Ruota tutto intorno a una parola semplice, semplice: “eppure”. La vita è dolore, la vita è impermanenza, la vita è un soffio: “eppure” merita di essere vissuta, “eppure” ha una sua irresistibile bellezza.
La poesia è questa, semplicemente:
È di rugiada
È un mondo di rugiada
Eppure, eppure
Diciassette sillabe da scolpire nel cuore. Perché regalano la bellezza che fiorisce anche dal dolore più tremendo. La parola, anche la singola parola, che ci dà la forza per redimerci e tirare avanti.
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