venerdì 30 luglio 2010

Quando Beatrice ci regalava ancora il suo canto

Ripenso spesso al canto di Beatrice e a queste parole, tratte dal mio libriccino. Ve le  ripropongo, perché penso che possano valere per tutti noi

Mi sembra un sogno, ancora un sogno, che proprio io, Beatrice Bugelli, la pastora, abbia cantato in piazze gremite, che signori e letterati se ne siano rimasti a pendere dalle mie labbra. Ma questo gliel’ho già detto.
L’altro giorno mi son destata con questo pensiero: fossi stata sempre muta, a questo punto la mia sorte non sarebbe diversa. E di me non serberà comunque memoria il tempo.
Non fosse per persone importanti come lei, tutto quanto ho vissuto e fatto mi parrebbe una fantasia.
E io lo so, professore, che vorrebbe farmi una domanda che più o meno suona così: vale davvero qualcosa, la poesia, se non può essere ricordata?
Vale la pena?
E a me vien da risponderle così, professore, per come la intendo io.
Le rispondo che la poesia è come le sere quando fuori nevica e in casa c’è il paiolo sul fuoco, il legno brucia e scoppietta, il fumo sale e per un po’ tutto tace e per aria si spande una quiete che è un miracolo. E che allo stesso tempo è una folata, è vento di tramontana, solo che non è gelido, piuttosto caldo come un tizzone.
Le rispondo che la poesia è acqua fresca che scaturisce dalla roccia e ci disseta, che è ninna nanna con cui si appisola beato quell’unico paese tutto nostro che è il cuore. Ed è il placido conversare di fanciulle al fresco di una sera d’estate, quando si vagheggia di amori che non si vedono ma si portano nel cuore.
Io non so cosa si provi a lasciarle scritte, le parole, non so nemmeno cosa siano davvero quelle formichine nere che le persone istruite lasciano sui fogli.
Le parole mi scorrono dentro, libere, mi attraversano e mi prendono.
Sono sangue, sono vita. In esse, professore, mi c’interno. E con esse ritorno fuori e abbraccio il mondo.
Non sono rincitrullita e lo so che le parole scritte resteranno scritte in eterno, e che le mie parole, invece, sono come nebbia nel vento che scappa, sono fumo che sale al cielo.
Ma la parola detta, la parola cantata, è bella perché è unica, perché è tutta piena di melodia.
E questa melodia conta più di me e persino più di lei, professore.
Perché la bellezza è fiore che sfiorisce e poi ritorna.
Perché la poesia è bellezza e la bellezza dura per sempre, anche quando sparisce. Perché è gioia che rimane, splendore che aumenta. E se gli altri se ne scorderanno alla svelta, noi le troveremo sempre un posticino indisturbato, come una pietra preziosa in uno scrigno.
E sarà dolce sogno, carezza di ricordo, salvezza.
Dove sono allora  i canti della mia giovinezza?
Vorrei illudermi, dire che sono un’eco che vibra ancora su questi nostri monti. Magari è davvero così.
Perché questi versi sono i fiori incolti di questa terra.
Fiori che nascono e muoiono senza che nessuno debba curarsene.
Muoiono ma la primavera dopo sono di nuovo qui a rallegrarti.

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