martedì 18 agosto 2009

Travel, travail, travaglio: viaggiare è fatica


Dunque, con la canicola di giorni come questi, oggi non ho fatto proprio fatica ad assecondare la mia propensione a rinchiudermi in casa e a fantasticare di viaggi che non farò mai.

Per l'appunto lo sguardo mi è caduto su un articolo - credo di Jean Starobinski - che ricordando la figura di un viaggiatore-fotografo come Nicolas Bouvier si soffermava sull'etimologia dell'inglese to travel, viaggiare.

Forse voi lo sapevate già, io non ho ci avevo mai pensato. To travel ha la stessa radice del francese travail, che sta per lavoro. Esisterebbe un'origine comune, una parola latina di uso non molto frequente, tripalium, che era l'attrezzo con cui si soggiogavano i buoi e gli asini ribelli.

E questo mi ha dato da pensare: perché passando dal francese al latino non c'è solo l'idea di fatica, c'è anche quella di una violenza necessaria (?) per domare, per riportare all'ordine, magari per placare un istinto.

L'articolo non rammentava un'altra parola, questa volta italiana, che aggiunge altri argomenti: travaglio. Parola che associamo alla sofferenza del parto e che almeno si accompagna all'idea di una nascita o di una rinascita.

Scriveva Nicolas Bouvier: "Se non si concede al viaggio il diritto di distruggerci un poco, tanto vale restare a casa".

Allora ho pensato: forse con me tante volte ha prevalso il "tanto vale restare a casa". Leggere di viaggi, immaginarsi viaggi, invece che viaggiare sul serio.

Col tempo, con poche eccezioni, sono diventato un viaggiatore di carta: e mi chiedo se anche voi, di tanto in tanto, non siate caduti in questa tentazione... Perché non si apre una discussione sulle gioie e i dolori dei viaggiatori di carta?

5 commenti:

  1. ci caddi, ci caddi, bradipa inside fui!

    travaglio, dolore del parto... ma anche felicità per una nascita, creazione del nuovo, tutta roba che col viaggio ha a che fare. scoperta, creatività, fantasia, ripartenza....

    sulla carta riesco a viaggiare solo i sentimenti e gli animi umani, leggere di panorami e viaggi non so. mi annoia, mi stanca. forse perché anche nei viaggi veri bado sempre più ai cambiamenti interiori che paesaggistici....

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  2. Anch'io, anch'io, dei libri di viaggio riesco a concepire quasi esclusivamente l'esperienza umana di cui sono impastati, non mi interessa il resoconto di viaggio, il bollettino di ciò che si è visto e fatto, se è solo descrizione, anche potente, efficace, ben scritta, propendo per lo sbadiglio: mi piace l'emozione alla vista di un bel tramonto sul mare, non una pagina che quel tramonto me lo vuole mostrare, anzi, dirò di più, quel tramonto me lo voglio immaginare, me lo voglio ricreare io, non trovarmelo inchiodato su una pagina allo stesso modo di un insetto trafitto dall'entomologo...

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  3. I bambini direbbero: allora siamo amici!

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  4. ma voi pensate solo ai resoconti di viaggi o tutt'al più ai resoconti delle impressioni dei viaggi.
    Intendo viaggi fisici, reali.
    Ma non s'era detto che anche quelli mentali (mediati dalle parole dei libri) anche se non parlano di travel sono pur sempre viaggi?
    Di narrativa leggo ormai pochissimo, e quel poco riguarda il sovrintendente Fandorin: leggendolo sono riuscito a viaggiare (con la fantasia) come facevo da ragazzo. Potenza dell'evocazione.
    Bye

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  5. Hai ragione, come no. Prendendola alla larga, ogni libro è un viaggio, o una possibilità di viaggio, o comunque un'esperienza che propone qualche ingrediente non troppo diverso da quello con cui è impastato il "travel"...
    Anche il titolo di questo blog, nel suo piccolo, esprime questa consapevolezza: non si chiama "libridiviaggo", ma "ilibrisonoviaggi"... grazie per aver alimentato questa consapevolezza...

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