mercoledì 11 giugno 2014

Annemarie, che arrivò a Kabul per ricominciare

Vagavo così per Istanbul come una sonnambula, rifiutando di abbandonarmi allo spettacolo familiare che mi circondava, e oltre il mare di tetti il mio sguardo si rivolgeva sempre alle rive dell'Asia.

Laggiù iniziava un altro mondo, iniziavano le colline brulle dell'Anatolia, simili a onde impietrite, là soffiavano venti più forti, la voce umana si perdeva, e lucide greggi pascolavano su prati senza fine, laggiù  si consumavano sacrifici, che si perpetuavano di steppa in steppa verso est fino alle terre dei nomadi dagli occhi a mandorla del Turkestan e sempre più lontano fino al mar Giallo - laggiù c'era la soglia che dovevo varcare...

Solo un esempio, tra molti altri di La via per Kabul (il Saggiatore): ma c'è tutta Annemarie Scwharzenbach in queste parole, tutta, con la fame di orizzonti, con lo smodato bisogno di fuggire a se stessa e con la condanna senza appello a essere sempre e comunque lei, senza autentica possibilità di redenzione. Con la sua scrittura incalzante, febbrile, vorace.

Giugno 1939, l'Europa alla vigilia della guerra di Hitler. E lei che a quell'Europa si sottrae, per lasciarsi alle spalle amori disastrosi ed eccessi di droga. Parte a bordo di una Ford, verso Oriente. Sua compagna di viaggio, con cui le cose non andranno per il meglio, è la scrittrice Ella Mailart. Due donne in viaggio verso l'Afghanistan, che non è l'Afghanistan dei nostri tempi, ma è sempre un mondo ai confini del mondo, il nostro mondo.

Un viaggio che è sorpresa, che è avventura. Per ciò che si spalanca davanti agli occhi e, ancora di più, per ciò che si dovrà scovare dentro. Inquietudini, paure, ansie. La giungla interiore in cui aprirsi un varco, con il machete delle parole. Il machete affilato di Annemarie.

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